Quando pensiamo ai business maggiormente inquinanti del mondo, non sorprende che l'industria energetica occupi il primo posto. Ma pochi di noi indovinerebbero il secondo classificato: l'industria della moda. Secondo un report pubblicato dalla Global Fashion Agenda nel 2017, ogni anno si producono ben 92 milioni di tonnellate di rifiuti tessili che finiscono nelle discariche o vengono inceneriti.
Questo dato, incredibile, è una diretta conseguenza del modello di business che i leader del settore dell’abbigliamento hanno messo a punto nel corso dell’ultimo trentennio, noto a tutti come Fast Fashion.
ll Fast Fashion è un modello basato sulla progettazione, produzione e distribuzione rapida e in volumi massivi di capi a basso costo e qualità, allineati per design ai trend stagionali delle griffe di alta moda. Questi prodotti sono, in qualche modo “a obsolescenza programmata”: intendo dire che dopo un numero limitato di utilizzi e lavaggi divengono logori e inutilizzabili, costringendo il consumatore ad acquistarne di nuovi frequentemente.
È fondamentale, per il nostro futuro, comprendere quali siano le azioni implementate dai players del mondo della moda in senso esteso, ed assicurarsi che siano quantomeno sufficienti a non impattare ulteriormente su ambiente ed ecosistemi.
Il Circular Fashion Index (CFX) di Kearney classifica i marchi della moda su otto dimensioni quantitative, pensate per comprendere gli sforzi dei players per adottare un modello economico circolare (ossia a basso impatto ambientale) e prolungare la durata dei loro capi.
Ecco i risultati della ricerca!
IL RAPPORTO KEARNEY
Gucci, Coach e Burberry sono i marchi del lusso più attenti alla circolarità, tuttavia i brand sul podio della classifica generale sono Patagonia, The North Face e Levi's. La classifica copre quest'anno 150 marchi globali in rappresentanza di 20 paesi e 6 segmenti: sport e outdoor, intimo e lingerie, lusso, lusso premium/accessibile, mass market e fast fashion.
La performance di circolarità delle aziende è stata valutata su sette dimensioni, coprendo sia il mercato primario, ovvero la vendita di nuovi prodotti ai clienti (valutando la quota di tessuti riciclati, il peso della circolarità nella comunicazione del marchio, il livello di dettaglio delle istruzioni e la disponibilità di servizi di riparazione) che quello secondario (che comprende la vendita dell'usato, i servizi di noleggio e il ritiro di indumenti usati). A ciascuna delle dimensioni è stato assegnato un punteggio per un valore totale da 1 a 10.
“Se guardiamo al risultato complessivo, il punteggio medio del settore moda è raddoppiato in un anno” commenta Dario Minutella, dirigente di Kearney Italia. “Questo valore riflette da un lato un investimento più marcato dei brand nella circolarità, dall'altro la necessità di adottare una strategia che coinvolga sempre più l'intero ecosistema: dai consumatori, fornitori, regolatori fino al sistema finanziario” continua Minutella.
Il risultato complessivo sull'impegno sostenibile è ancora in salita per l'industria della moda, che fatica non poco a raggiungere la sufficienza (3 punti su 10). Infatti solo il 7% dei brand oggi utilizza regolarmente materiali riciclati rispetto al 39% che non li utilizza affatto e al 54% che li utilizza esclusivamente per prodotti selezionati.
Anche la comunicazione degli aspetti chiave della sostenibilità fatica a prendere piede. Solo il 46% dei brand fornisce, approssimativamente, informazioni ai clienti riguardo gli impatti ambientali delle proprie operazioni, mentre il 44% non lo fa affatto. Tuttavia, spiccano ancora una volta i marchi europei: dei 150 marchi monitorati, il 35% è made in Germania, Francia e Italia. L'Italia si distingue nella Top 10 mondiale con due marchi leader Gucci e Ovs, oltre a un parterre di 14 marchi.
Resta fuori dalle prime posizioni la Francia: essa raggiunge il punteggio più alto nel CFX (3,65) grazie all’elevato numero di marchi nel top 100 (ben 22), ma senza punte di eccellenza. Al secondo posto si piazza l’Italia (2,95) e terza la Germania (2,63), con Esprit al quarto posto, Adidas nel primo quartile e Hugo Boss nel secondo.
Gli Stati Uniti, con un punteggio medio di 2,95 si allineano all'Italia grazie al posizionamento di Patagonia, Levi's e The North Face, i tre migliori Cfx performer. Dei restanti 16 paesi la Svezia è quella che ha ottenuto il punteggio migliore (grazie a Lindex), seguita da Canada (con Lululemon) e Regno Unito (con Burberry). Guardando la Top 10 mondiale, Patagonia, Levi's e The North Face si confermano le migliori performance con una media di oltre 8 punti su 10 (rispettivamente 8.50, 8.20 e 8.05).
Il miglioramento del punteggio di Patagonia rispetto al 2021 è da ricondursi al nuovo programma di noleggio lanciato dal brand con la piattaforma Awayco e all'utilizzo di una quota maggiore di tessuti riciclati. Progresso sostenuto anche in Levi's grazie alla nuova capsule collection in esclusiva a noleggio “Ganni”, realizzata in denim upcycled. The North Face, pur aumentando l'uso di tessuti riciclati, a differenza di Patagonia e Levi's non è ancora entrata nel business del noleggio, attualmente disponibile solo tramite siti Web di terze parti.
Il primo brand di lusso sostenibile al mondo è la maison fiorentina Gucci. Il marchio ha intensificato i suoi sforzi sostenibili con Gucci Equilibrium e la collezione Off the Grid migliorando costantemente la comunicazione e investendo in nuove iniziative circolari come il programma Gucci-econyl Pre Consumer Fabric, Take Back e Gucci-up. Anche Ovs, che lo scorso anno era nel primo quartile della classifica, è risalito ulteriormente fino alla quinta posizione nel 2022. L'azienda ha infatti aumentato la propria quota di tessuti riciclati dal 65% della collezione 2020, con l'obiettivo di raggiungere il 90% entro il 2025 .
PERCHÈ C’È BEN POCO DA FESTEGGIARE?
Al di fuori delle brand in top 10, che hanno raggiunto un punteggio accettabile, Il punteggio medio dei marchi è stato un terribile 1,99 su una scala di 10. In altre parole, il report tratteggia un panorama con poche isole di eccellenza (la top 10, appunto) in un mare di mediocrità.
QUINDI, COSA DOVREBBERO FARE LE AZIENDE?
Il rapporto Kerney elenca una serie di raccomandazioni, alcune delle quali immediatamente attuabili.
Nel breve termine, i marchi di moda potrebbero inaugurare campagne di comunicazione atte ad educare i consumatori su come trattare correttamente i loro vestiti. Ad esempio, H&M pubblica istruzioni dettagliate per la cura e suggerimenti per la riparazione sul proprio sito Web. In modo simile, il brand svedese Lindex invita i clienti di effettuare acquisti "consapevoli" acquistando solo ciò di cui hanno veramente bisogno. La startup svedese Asket, nel 2019 ha addirittura svelato un gigantesco cartellone pubblicitario nella principale area dello shopping di Stoccolma con la scritta “F*** Fast Fashion”.
Nel medio termine, le brand dovrebbero ridurre la quantità di lanci di prodotti. Di recente, Giorgio Armani ha annunciato che sarebbe tornato al tradizionale lancio delle collezioni estate/inverno.
Gli stilisti dovrebbero creare collezioni più durature basate su modelli che possono essere indossati in più occasioni.
La qualità di prodotto, intesa la durata e l'assenza di scolorimento dei tessuti, gioca un ruolo cruciale nell'incoraggiare i consumatori a indossare i propri vestiti più a lungo.
I marchi di moda dovrebbero inoltre valutare l’uso di materiali tradizionali come poliestere e cotone per esplorare opzioni più rispettose dell'ambiente come materiali riciclati o biodegradabili.
I marchi devono investire (direttamente o tramite partner) nella logistica inversa per raccogliere i vestiti ed evitare che finiscano in una discarica. Possono anche prolungare la longevità dei capi istituendo servizi di riparazione, consentendo ai clienti di inviare o riconsegnare i vestiti danneggiati e farli riparare da esperti in pochi giorni. Infine, i modelli di business alternativi come second hand e noleggio dovrebbero essere incentivati in modo da diminuire il numero di capi nuovi immessi sul mercato.
Quanta strada c’è ancora da fare!
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